Perché “28 anni dopo” è un capolavoro
Danny Boyle ritorna, sperimenta, sorprende, con il contributo di Alex Garland
C’è qualcosa di potente, viscerale, persino commovente nel vedere un regista come Danny Boyle tornare al cinema con una forza creativa così limpida. Sono andato a vedere 28 Anni Dopo senza aspettative altissime, con la consapevolezza che si trattava del terzo capitolo di una saga cult cominciata più di vent’anni fa. E ne sono uscito scosso, sorpreso, ispirato.
Sì, per me è un capolavoro. E lo dico a voce alta, anche sapendo che i pareri sono molto divisi. Basta fare un giro online tra recensioni, youtuber e commentatori seriali: c’è chi lo esalta come una visione profetica e chi lo liquida come una boiata. Eppure, in tutto questo rumore, a me interessa parlare di una cosa, del coraggio. Perché quello che ha fatto Boyle non è solo un sequel. È un gesto artistico rischioso, sperimentale, e per certi versi necessario.
Danny Boyle non è un regista qualsiasi. È uno di quelli che sa leggere i tempi, sa annusarli prima degli altri. È cresciuto negli anni ‘80 e ‘90, ha attraversato gli anni Duemila senza mai perdere la sua voglia di giocare, di rinnovarsi, di sorprendere.
Trainspotting, The Beach, 28 Giorni Dopo, Slumdog Millionaire, Steve Jobs… ogni film, un mondo a sé. E ora ritorna con una pellicola che non solo riapre un universo narrativo, ma ne fa una lente per leggere il nostro presente. 28 Anni Dopo è scritto da Alex Garland, ormai uno dei nomi più interessanti del cinema contemporaneo.
Dopo Civil War (film che sembrava anticipare il nostro tempo con uno spaventoso senso di presagio), Garland torna a scrivere una storia che parla sì di infetti, di epidemie e sopravvivenza, ma che in realtà racconta molto altro: il nostro rapporto con la paura, con la collettività, con l’isolamento. Non è solo una distopia: è un’analisi feroce della società post-pandemica, del dopo-Covid, della Brexit, delle fratture interiori che ci portiamo addosso senza più accorgercene.
Certo, ci sono delle stranezze. La più evidente è la completa rimozione di 28 Settimane Dopo, il secondo capitolo diretto da Juan Carlos Fresnadillo, che viene praticamente ignorato. Boyle e Garland ripartono da zero, costruendo una nuova narrazione che lascia intendere lo sviluppo di una trilogia, anzi, di una “saga di inter-capitoli”, come già annunciato.
E poi c’è quella curiosità che ha fatto storcere il naso a molti: il QR code sulla locandina che invita gli spettatori a fare una donazione per sostenere la produzione del terzo film. Un gesto bizzarro, inquietante, forse geniale. Siamo davvero arrivati al punto in cui anche un regista come Boyle ha bisogno del crowdfunding? Oppure è un modo per coinvolgere il pubblico, per renderlo parte di un’opera collettiva?
Quel che è certo è che 28 Anni Dopo è tutto tranne che un film banale. Gli infetti – attenzione, non zombie – sono la metafora perfetta del contagio emotivo e sociale che viviamo quotidianamente. Il virus è dentro di noi, nella rabbia, nella disconnessione, nel terrore di perdere controllo. E il film lo racconta con una regia secca, pulsante, viva. Non cerca di piacere: cerca di dire qualcosa.
Per chi, come me, lavora con i giovani, parla con adolescenti, lavora nelle scuole e nei teatri, questo film è un pugno allo stomaco. Perché riconosco negli occhi dei protagonisti lo stesso spaesamento che vedo negli sguardi di tanti ragazzi di oggi. La generazione post-Covid, nata già in un mondo distopico, senza certezze, con la consapevolezza che tutto può cambiare da un giorno all’altro.
Boyle, con la sua regia energica, quasi punk, riesce ancora una volta a trasformare il cinema in uno specchio del presente. E per questo, oggi più che mai, serve uno sguardo come il suo. Sì, 28 Anni Dopo è un capolavoro. E anche se non lo fosse per tutti, è comunque una voce fuori dal coro in un panorama che spesso ha paura di osare. Boyle non ha paura. E io, come spettatore, gliene sono grato.